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Ore undici e diciotto

di Andrea Borelli

Ho visto l’orologio appeso al muro e penso che sia ancora presto, ma c’è una spaccatura nello stomaco che si trascina dalla milza al pancreas, penso quasi che non ce la farò neanche a raggiungere la porta. L’entrata è su un piccolo disimpegno coperto di specchi che mi guardano, si fissano sulle occhiaie color rosanero e gli occhi pieni di piccolissime venuzze che sembra stiano per trasbordare. Apro la porticina e mi chiudo dentro. Non ce la faccio più a trattenere e caccio via tutto, mi tengo a debita distanza ma lo centro in pieno, non sembra più sporco di casa mia e quasi mi appoggio. Il risultato è una cascata di tempera rossa, densa, il risultato delle precedenti tre bottiglie di rosso, l’attesa prima di venire qui con Darjan, l’amico della Transilvania. Il colore mi fa pensare a questo. A lui che probabilmente ho lasciato da solo e mi sta aspettando, con gli altri, i ragazzi che lavorano. Almeno oggi le pizzerie sono chiuse, e io e lui non facciamo niente. Tiro velocemente lo scarico. Prendo della carta e pulisco accuratamente i bordi, più di una volta, diventando quasi compulsivo in quel gesto. Ne saranno passati dieci o forse quindici. La prima cosa che faccio allora, è contare, in continuazione, a ripetizione, cercando di fare il più velocemente possibile, mi slaccio i pantaloni e mi siedo. Continuo a contare, quando vedo che tendo ad accelerare un po’ il ritmo poi freno di colpo, rallento troppo ma ricomincio di nuovo. È andata, ho quasi finito, forse sono riuscito anche prima del previsto, cerco di ripulirmi un po’ e di fretta, mi alzo i pantaloni fino sotto lo scroto, guardo giù, sono completamente ubriaco e non capisco niente. Tutte quelle minigonne e tacchi, canotte e seni, capelli lunghi profumati e sorrisi colorati. Mi massaggio e mi rilasso un po’ con la testa all’indietro, non conto più, c’è tempo e farò ancora prima. L’alcol mi ha distrutto prima e dopo ancora peggio, quando mi sono visto circondato da bottiglie di bianco frizzante servite su una cena di pesce, l’inappetenza di qualcosa che non ho mai mangiato mi aveva infastidito e avevo scelto di colmare col vino. Ora mi masturbo e penso di volermi fare una canna. Apro gli occhi e vedo la merda, li chiudo di nuovo e continuo. Continuo a massaggiarmi sotto le palle con una mano e sfregare con l’altra. Il ritmo lo conosco, me lo sono scelto io. E posso sognare con una musica di sottofondo, disegnare curve, tunnel, aste lunghe su trampoli d’oro col tacco sottile, scarpe aperte che si possano vedere le dita sottili. Riapro gli occhi mentre sta cadendo, su quel chiasso di palline e liquami marroni, non faccio neanche in tempo e butto giù di nuovo l’acqua. Riprendo a contare e segno altri cinque minuti perché sono buono. Devo farmi una canna, voglio accenderla al momento giusto. Bussano. Rispondo che è occupato e penso che sia passato ancora meno tempo se questo è il primo che è passato. Prendo tutto l’occorrente, ho le mani sudate e mi si appiccica tutto, la cartina è mezza stropicciata nel taschino dentro la grande tasca destra del pantalone e il pezzo nella bustina dentro al pacco di sigarette quasi finito. Cerco di accelerare e fare il prima possibile ma tabacco e poltiglia mi rimangono attaccati alla mano. Sento dei botti, fortissimi, la musica ancora più alta e quando cerco di girarla ormai, mi cade tutta nel cesso. Rimango lì fermo senza crederci. A questo punto non arriverà più nessuno. Tiro giù la tavoletta e il copri water, mi siedo e me ne preparo un’altra con calma mentre fuori è un tripudio di grida, urla e scoppi vari, da qui dietro potrebbe anche sembrare la colonna sonora di un film di guerra. Mi metto ad immaginare il contrario. Guardo Apocalypse Now con le risatine finte che si usano in quei programmi alla televisione. Ormai tempo è passato, non serve a niente contare da ora, dall’inizio. Faccio scattare la serratura da seduto e solo dopo mi alzo. Sento la musica più forte e un appannarsi di mani nell’aria, le vedo dai vetri della porta. Li avevo lasciati tutti seduti a chiacchierare, ridere e bere strusciando i culi scalpitanti sulle loro sedie, passo tra la folla come fossi un fantasma, l’euforia, i baci, gli abbracci, i tuoni e i fulmini sono passati. Ora non conta più niente, io non conto più niente. Anche quelli che conosco sembrano strizzarmi l’occhiolino, continuare a lavorare facendo finti sorrisi in scarpe scomode per vedersi pagata una tripla. Una paga triplicata per via dell’evento organizzato per le festività. È finito un altro anno. Penso che ho evitato un sacco di bava sulle guance, sudore di mani e magliette. Saluto tutti come se li avessi stretti a me fino a poco prima, con la convinzione che si siano dimenticati di me e la sicurezza data loro dai miei sorrisi, che invece c’ero anch’io. Solo il barman, mi si avvicina e mi fa gli auguri, io non li ho dati a nessuno perché non mi sono fermato un attimo, mi dice. Io alzo le spalle e penso che sono qui proprio per festeggiare con lui, un mio amico. Mi passa un mojito e io dico che l’aspetto fuori quando può staccarsi un minuto mentre Darjan mi si avvicina e mi guarda come se fossi resuscitato, all’orecchio mi chiede se mi sono sparato una sega in bagno e io sorrido per scappare fuori. Voglio accendere e farmi due sorsi. Sono le dodici e diciotto quando vedo l’orologio e io senza volerlo sono riuscito a passare l’anno.

 

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