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di Nicola Cudemo

Questa mattina ho aperto la confezione di un nuovo spazzolino. Ho asciugato per bene il vecchio, e l’ho messo nel borsone degli usati. Non li butto, anche se sono molto consumati. Gli spazzolini servono. Spazzolini, dentifrici, collutori e scovolini interdentali. Ma soprattutto, spazzolini. Manuali, a motore, a ricarica solare, li possiedo tutti, e li uso sempre. Una carie, sarebbe terribile. Debilitante. Un dente che marcisca in bocca. Le uniche opzioni, una automutilazione dolorosissima e dagli esiti incerti, o un colpo in testa. Solo che il suicidio per mal di denti non è una opzione percorribile. Tanto più che potrei sempre fare razzia di antidolorifici. Aspettiamo qualcosa di più serio. Il tempo è stupendo, temperatura e luce dalle finestre spalancate dell’attico.
Le mie stanze allegre, alla luce del sole. Vorrei che ci fosse sempre. Il sole, dico. La notte è deprimente, anche se c’è il mio gregge a tenermi compagnia, ad aggirarsi lamentoso al pianoterra. Ho fatto colazione, cereali e semi, poi ho preso il nuovo spazzolino e mi sono lavato i denti. A lungo. Ho smesso quando hanno cominciato a sanguinarmi le gengive. Devo controllarmi, anche le gengive sono importanti. Esco sul terrazzo e ramazzo tutte le bottiglie di birra della notte prima. Le butto giù dal lato est del palazzo, il lato che da sulla rampa di accesso ai garage sotterranei. La spazzatura non è più una seccatura. Tolgo piatti sporchi dal tavolino. Riporto dentro la tastiera Kentron e l’amplificatore Fender.
Non che io sappia suonare, uso le sezioni ritmiche della tastiera, per dare tono alle mie bevute serali. Prima usavo la musica, ma non andava bene. Troppo coinvolgente. Mi seccava, mettermi sempre a piangere, alla quarta birra. Il loop sincopato dell’elettronica va meglio, mentre me ne sto stravaccato sulla poltrona, in terrazzo, a guardare la città  buia e a cercare di stordirmi a birra e a contrappunti di bassi. Devo rinnovare le scorte. Cibo e bevande. Faccio scendere il cestello del montacarichi a piano terra. Guardo giù e vedo il mio gregge che comincia a radunarsi lento intorno ad esso.
Sanno che quando arriva, dopo un po’ arrivo pure io. Sono sempre più veloci. Migliorano ogni giorno che passa. Mi infilo il Mossberg sulle spalle e mi allaccio la fondina con la 45 alla coscia. Faccio scendere la passerella che collega il mio terrazzo con quello accanto, sul lato nord. Attraversarla non è un problema, facevo arrampicata libera, le vertigini non sono contemplate. E comunque, me ne frega poco. La passerella l’ho costruita io, in profilato d’alluminio e corda. Ho anche fatto saltare le scale con delle micro cariche trapanate nel cemento armato e liberato gli appartamenti sottostanti dai cadaveri degli inquilini preesistenti. I pochi nella fase terminale li ho spazzati via con il Mossberg.
Così, adesso, sono l’unico abitante del mio castello, comprensivo di ponte levatoio del cazzo. Raggiungo la superficie e carico due bidoni di gasolio nel cesto del monta carichi. Il gruppo elettrogeno super-silenziato che ho installato nell’appartamento sotto l’attico è quasi a secco. Il gregge si è avvicinato, nel frattempo. Puzzano come capre stagionate e girano gli occhi alla maniera degli autisti, senza mai guardarti, ma sono contento di vederli arrivare con il loro passo strascicato.
Si riuniscono tutti attorno a me ed io li esamino per vedere se sono in buone condizioni. Pare che nessuno si sia mutilato accidentalmente, nel corso della notte. Hanno solo la solita collezione di graffi freschi e sanguinanti. Ormai non succede quasi più che si facciano male seriamente. Stanno migliorando. Un po’ di tempo fa, gli ho tolto di dosso i pochi stracci sbrindellati che pendevano dai corpi emaciati.
Poi, aiutato da dosi massicce di sonnifero, gli ho messo addosso giacchetti e pantaloni di cuoio presi da un negozio di abbigliamento di sicurezza. I pantaloni li ho tagliati avanti e dietro, perché altrimenti evacuerebbero dentro, e ho riattaccato i lembi solo sulla parte superiore, così adesso sembrano un gruppetto di scalcinati indiani Iowa. Sono in quattordici, otto femmine e sei maschi. Mentre li sto ancora esaminando, mi sento toccare sul braccio destro. Mi giro e vedo che una delle femmine, la più alta, mi ha messo una mano sul braccio. Le do un ceffone violento a mano aperta sul viso. Mentre indietreggia e cade le urlo dietro «Fottuta zombie del cazzo, non devi toccarmi !Hai capito ? Non devi toccarmi!» Le do un paio di calci e mi incammino infuriato per il viale.
Non sopporto che mi tocchino. Li sento che camminano dietro di me. Ormai riescono quasi a stare al mio passo. Li porto al supermercato, dove carico su un carrello scatolame, confezioni di birra e cereali. Poi vado alla mangiatoia, che è il banco dei formaggi che ho svuotato, e mescolo insieme cous cous precotto e scatole di cibo per cani e gatti. Mentre il gregge mangia, giro per gli scaffali, e mi scelgo qualche spazzolino e un paio di bottiglie di rum. Questo supermercato è quasi andato. Ormai sono rimasti pochi spazzolini. Fra un po’ me ne sceglierò un altro. Torno di là e vedo che il gregge ha quasi finito. Mentre spazzolano via gli ultimi resti di cibo, apro una delle bottiglie di rum e tiro due lunghi sorsi. Di solito, non bevo mai la mattina. Di solito. Solo che adesso mi serve il rum per attutire i ricordi. La mano della femmina sul mio braccio li ha risvegliati. Ricordi di prima, ricordi dei giorni del virus, con le orde dementi che sciamavano per la città, ricordi di me alla postazione di tiro sul terrazzo, che facevo surriscaldare la canna del TikkaT3 Tactical in una frenesia di uccisioni.
Alla fine, la radio aveva taciuto, niente più ordini, niente più di niente. Bevo un altro paio di sorsi. Il gregge si è di nuovo radunato intorno a me. Offuscato dal rum, gli dico «Mi dispiace. Mi dispiace. Non sapevamo che la fase maniacale sarebbe passata presto, che saremmo rimasti pochi immuni a guardarvi morire a milioni.»
Mi avvio barcollando, prima che a qualcuno di loro venga di nuovo in mente di toccarmi. Spingo il carrello sulla strada del ritorno. Carico tutto sul cesto del montacarichi e prendo la bici dalla rimessa. Ho bevuto troppo a stomaco vuoto, mi verrà un mal di testa feroce, ma devo fare il giro della frutta e verdura. Sono necessarie, prevengono la carie e i problemi di intestino. In giro per la città ci sono orti botanici, alberi da frutta ornamentali che ora hanno un altro valore. Poi c’è il parco, dove posso prendere la verdura spontanea.
Quando mi avvio con la bici, il gregge resta fermo a guardarmi. Ormai capiscono quando possono venire insieme e quando no. Pedalare mi fa bene. Mi dedico al semplice piacere fisico sotto il sole mite. Durante il raccolto, passo nei pressi della zona abitativa di un altro immune. Non vedo segni di attività di alcun genere. Non so neanche se sia ancora vivo. Alla fine del mio giro, passo dal piazzale della stazione, dove, in mezzo al parcheggio vuoto degli autobus, trovo una sorpresa.
Una stazione di rilevamento dati. Almeno, penso sia quella, la sua funzione. È una specie di scatolone metallico con un anemometro, prese d’aria varie, antenne, scomparti trasparenti con recipienti di coltura. Sono maledettamente sicuro che l’ultima volta che sono passato di lì lo scatolone non c’era. Mi mette addosso una strana euforia. Sa di organizzazione, sa di tentativi e di ripresa. Penso di lasciare un biglietto, poi penso che è meglio non interferire. Me ne torno a casa fischiettando. Passo il pomeriggio a sistemare un po’ di cose che rimandavo da tanto tempo. Quando il sole sta per tramontare, do da mangiare al gregge, e salgo. La sera, mi organizzo una festicciola a base di rum e di tiri di precisione con il Tikka. Alla fine del viale ho posizionato dei palloncini con dietro delle candele accese. Sono delle specie di ceri protetti, a lunga durata. Mi esibisco in una serie di tiri sempre più spericolati, man mano che diminuisce il rum nella bottiglia. Alla fine tiro senza appoggio, e ridacchio ad ogni bersaglio mancato. Poi, mi addormento sulla poltrona. La mattina dopo, mi lavo i denti più sbrigativamente del solito. Sono ansioso di scendere, e di andare a vedere la stazione di rilevamento.
Penso che questa volta lo lascerò, il biglietto. Discreto, lontano, con un segnale per attirare l’attenzione. Sto ancora pensando al biglietto, quando sbuco sul piazzale dove mi sta aspettando il gregge. Mi fermo di botto. Stanno intorno a due figure in tenuta bianca stagna da laboratorio di contenimento, con vistose maschere antigas. I miei cercano di circondarli, e loro indietreggiano nervosi. Imbracciano degli AR 15, ed io corro verso di loro e li chiamo, perché’ non voglio che facciano del male al gregge. Loro si girano di scatto, e uno dei due inciampa e lascia partire una raffica. L’altro perde il controllo e mi tira addosso. Sento l’impatto di un proiettile in una gamba, mentre vedo due maschi e una femmina del gregge che cadono sotto i colpi. I miei automatismi prendono il sopravvento e mi tuffo in scivolata estraendo il Mossberg e tirando due colpi che scaraventano indietro i due in tenuta bianca. Mentre cerco di radunare il gregge per portarlo via, arrivano altri tizi in tenuta stagna. Sono troppo lontani per il Mossberg, così estraggo la 45. Loro abbattono altri quattro dei miei, io tiro e abbatto due di loro, gridando come un ossesso, vuoto il caricatore e lo lascio cadere. Mentre cerco di inserire il nuovo, tre colpi mi raggiungono al torace e cado in ginocchio. Mi guardo intorno, sono in mezzo ai corpi del gregge. Lascio cadere la pistola, sento le lacrime che escono, poi non sento più niente.

 

 

di Andrea Borelli

Ho visto l’orologio appeso al muro e penso che sia ancora presto, ma c’è una spaccatura nello stomaco che si trascina dalla milza al pancreas, penso quasi che non ce la farò neanche a raggiungere la porta. L’entrata è su un piccolo disimpegno coperto di specchi che mi guardano, si fissano sulle occhiaie color rosanero e gli occhi pieni di piccolissime venuzze che sembra stiano per trasbordare. Apro la porticina e mi chiudo dentro. Non ce la faccio più a trattenere e caccio via tutto, mi tengo a debita distanza ma lo centro in pieno, non sembra più sporco di casa mia e quasi mi appoggio. Il risultato è una cascata di tempera rossa, densa, il risultato delle precedenti tre bottiglie di rosso, l’attesa prima di venire qui con Darjan, l’amico della Transilvania. Il colore mi fa pensare a questo. A lui che probabilmente ho lasciato da solo e mi sta aspettando, con gli altri, i ragazzi che lavorano. Almeno oggi le pizzerie sono chiuse, e io e lui non facciamo niente. Tiro velocemente lo scarico. Prendo della carta e pulisco accuratamente i bordi, più di una volta, diventando quasi compulsivo in quel gesto. Ne saranno passati dieci o forse quindici. La prima cosa che faccio allora, è contare, in continuazione, a ripetizione, cercando di fare il più velocemente possibile, mi slaccio i pantaloni e mi siedo. Continuo a contare, quando vedo che tendo ad accelerare un po’ il ritmo poi freno di colpo, rallento troppo ma ricomincio di nuovo. È andata, ho quasi finito, forse sono riuscito anche prima del previsto, cerco di ripulirmi un po’ e di fretta, mi alzo i pantaloni fino sotto lo scroto, guardo giù, sono completamente ubriaco e non capisco niente. Tutte quelle minigonne e tacchi, canotte e seni, capelli lunghi profumati e sorrisi colorati. Mi massaggio e mi rilasso un po’ con la testa all’indietro, non conto più, c’è tempo e farò ancora prima. L’alcol mi ha distrutto prima e dopo ancora peggio, quando mi sono visto circondato da bottiglie di bianco frizzante servite su una cena di pesce, l’inappetenza di qualcosa che non ho mai mangiato mi aveva infastidito e avevo scelto di colmare col vino. Ora mi masturbo e penso di volermi fare una canna. Apro gli occhi e vedo la merda, li chiudo di nuovo e continuo. Continuo a massaggiarmi sotto le palle con una mano e sfregare con l’altra. Il ritmo lo conosco, me lo sono scelto io. E posso sognare con una musica di sottofondo, disegnare curve, tunnel, aste lunghe su trampoli d’oro col tacco sottile, scarpe aperte che si possano vedere le dita sottili. Riapro gli occhi mentre sta cadendo, su quel chiasso di palline e liquami marroni, non faccio neanche in tempo e butto giù di nuovo l’acqua. Riprendo a contare e segno altri cinque minuti perché sono buono. Devo farmi una canna, voglio accenderla al momento giusto. Bussano. Rispondo che è occupato e penso che sia passato ancora meno tempo se questo è il primo che è passato. Prendo tutto l’occorrente, ho le mani sudate e mi si appiccica tutto, la cartina è mezza stropicciata nel taschino dentro la grande tasca destra del pantalone e il pezzo nella bustina dentro al pacco di sigarette quasi finito. Cerco di accelerare e fare il prima possibile ma tabacco e poltiglia mi rimangono attaccati alla mano. Sento dei botti, fortissimi, la musica ancora più alta e quando cerco di girarla ormai, mi cade tutta nel cesso. Rimango lì fermo senza crederci. A questo punto non arriverà più nessuno. Tiro giù la tavoletta e il copri water, mi siedo e me ne preparo un’altra con calma mentre fuori è un tripudio di grida, urla e scoppi vari, da qui dietro potrebbe anche sembrare la colonna sonora di un film di guerra. Mi metto ad immaginare il contrario. Guardo Apocalypse Now con le risatine finte che si usano in quei programmi alla televisione. Ormai tempo è passato, non serve a niente contare da ora, dall’inizio. Faccio scattare la serratura da seduto e solo dopo mi alzo. Sento la musica più forte e un appannarsi di mani nell’aria, le vedo dai vetri della porta. Li avevo lasciati tutti seduti a chiacchierare, ridere e bere strusciando i culi scalpitanti sulle loro sedie, passo tra la folla come fossi un fantasma, l’euforia, i baci, gli abbracci, i tuoni e i fulmini sono passati. Ora non conta più niente, io non conto più niente. Anche quelli che conosco sembrano strizzarmi l’occhiolino, continuare a lavorare facendo finti sorrisi in scarpe scomode per vedersi pagata una tripla. Una paga triplicata per via dell’evento organizzato per le festività. È finito un altro anno. Penso che ho evitato un sacco di bava sulle guance, sudore di mani e magliette. Saluto tutti come se li avessi stretti a me fino a poco prima, con la convinzione che si siano dimenticati di me e la sicurezza data loro dai miei sorrisi, che invece c’ero anch’io. Solo il barman, mi si avvicina e mi fa gli auguri, io non li ho dati a nessuno perché non mi sono fermato un attimo, mi dice. Io alzo le spalle e penso che sono qui proprio per festeggiare con lui, un mio amico. Mi passa un mojito e io dico che l’aspetto fuori quando può staccarsi un minuto mentre Darjan mi si avvicina e mi guarda come se fossi resuscitato, all’orecchio mi chiede se mi sono sparato una sega in bagno e io sorrido per scappare fuori. Voglio accendere e farmi due sorsi. Sono le dodici e diciotto quando vedo l’orologio e io senza volerlo sono riuscito a passare l’anno.

 

di Andre Lasdo

Le tre età della donna, quel dipinto di Klimt che simboleggia le tre fasi della donna: infanzia, maternità, vecchiaia. Mi viene in mente ‘sta cosa mentre sto guidando senza una meta, senza un appuntamento, senza il formicolio sottopelle delle ore contate. Succede così. Il cervello si apre come un mazzo di carte e ne pesca una a caso. Allora pesca la carta della musica all’autoradio e quella porzione di materia grigia ascolta una certa sinfonia, smanetta sulle stazioni, canticchia qualcosa. Ne pesca un’altra e sulla carta ci sono delle mani che reggono un volante, che mettono la freccia, scalano le marce, e allora quest’altra fetta di pensiero viaggia in routine, fa sì che la meccanica del corpo compia azioni e gesti abituali. La terza carta è quella di Gustav Klimt, appunto.
Poi la macchina si ferma, la chiave stacca il collegamento, il piede s’alza dal pedale della frizione. Mi guardo in giro. Piazzale di cemento, zona mai vista prima, bar di periferia, entro. Dritto davanti a me il bancone. Legno chiaro con lastra di marmo unto. Parcheggio i gomiti sopra e aspetto. Alla mia destra un tavolino.
Due giovani seduti, poco meno o poco più di vent’anni, si baciano tre volte ogni due secondi. Alla mia sinistra altro tavolo. Quattro anziani che giocano a carte. Giocano a briscola. Asso, 3, re, cavallo, donna, 7, 6, 5, 4, 2. Arriva una tizia, mi chiede cosa voglio, dico un caffè e quella si dà da fare. Eccomi qua, le tre età di Gustav in chiave osteria di passaggio. Giovinetti, uomo maturo, anziani. Stacco un orecchio alla bustina dello zucchero e comincio a girare il cucchiaino.
 E mentre il cucchiaino gira, gira pure il ramaiolo del Tempo sul calderone coi nostri resti. Mi metto a curiosare ora da una parte ora dall’altra. Un po’ come se guardassi una partita di tennis, solo che la palla è fatta con la pelle della morte e la rete divisoria sono io. O almeno è così che mi sento. I giovinetti sono belli.
Tutto è bello alla mia destra. Bella è la loro faccina fresca, belle le loro bocche rosse che giocano a indiani e cowboy. Belli sono i capelli. Folti e puliti. Belli i vestiti, coi colori sgargianti di Klimt che nell’insieme sono caldi e luminosi come l’oro che usava nelle foglie. Belli i loro occhi agganciati uno sull’altro, come pesci blu che si muovono insieme. Bella la loro voce bisbigliata che si accuccia rasoterra perché è scaltra, dice cose che noi vorremmo sentire ma ha una lingua sola e quella lingua adesso si apre in due e sbatte sui denti appuntiti, s’intreccia a serpente, finisce quasi in gola.
Di là, alla mia sinistra, il gioco non regge. Ci sono quattro spugne luride, imbevute così tanto di vita eppure così rinsecchite da sfasciarsi in brandelli di stoppa. Si leccano le dita con sputo di lumaca e battono il fante. Dita che sono lame rugginite di roncola e hanno occhi duri come i sassi del fiume, che l’acqua passando ha slavato il colore. E le voci? Tu la chiami voce il verso del vento sul tronco annerito dal marcio? È  forse voce la rangola ansante della bestia vecchia?
Insomma io li guardo e non c’è un cazzo da ridere.
E nel mezzo ci sono io. L’età di mezzo. Il soggetto al centro della tela. Fra il desiderio alla mia destra e la mattanza che chiamano senilità, alla mia sinistra.
Finisco il caffè, pago il conto, raccolgo gli spicci.
Un’ultima occhiata da un lato e realizzo di essere troppo vecchio per sedermi a quel tavolo, e troppo giovane per dare le carte nell’altro. Da una parte parlano di cose che ho già visto, parole che ho già pronunciato, bugie dolci, sguardi che ho toccato mille volte e sono sempre state poche. Il passato è seduto là, così vicino eppure così lontano. E il futuro alle mie spalle che si gioca le ultime mani e vincere o perdere non conta più nulla. Il futuro è una tormentata cagnara di rauchi, una stancante conta dei punti persi. Al futuro io non servo, ha già il suo pasto caldo sulle ginocchia. Nasci uomo e perdi i pezzi. Resterò con la sola U che pare tanto una fossa scavata, o il fondo d’una bara dove ristagnano i liquidi e le puzze cadaveriche. Questa tela non posso squarciarla con un coltello. Qui gli smalti sono fatti col sangue imbrattato sulla carne. Me ne vado e scappo via.
Klimt era un figlio di puttana.
L’auto viaggia e dal cervello pesco un’altra carta.
Esce una canzone alla radio: beneath the stains of time (che vuol dire più o meno “sotto i calci in culo del tempo”) the feelings dissapear (i sentimenti scompaiono, sbiadiscono) you are someone else (tu sei qualcun altro)
I am still right here (Sono ancora qui)
Sì. Anche Johnny Cash era un figlio di puttana.

 

di Andreas Finottis

Un ragazzino timido, con un cappotto marrone a grossi quadri gialli, sale sull’autobus che porta gli studenti a scuola. Guarda intimorito gli altri ragazzi, in maggior parte più grandi di lui. Ridono e scherzano, quasi tutti i posti sono occupati, così lui rimane in piedi.
Lo notano subito: un ragazzo di quelli più vivaci, seduto negli ultimi sedili grida: «Ehi tu, ma dove hai preso quel cappotto?»
Inorgoglito dalla domanda, risponde: «Mmmeee l’ha commpppprato mio papà ai Mammaaagazzini Occccaaaaasione.»
«Meglio così, credevo l’avessi rubato nei sacchi dei vestiti per la Caritas.»
Risate fragorose di tutto l’autobus all’unisono, persino l’autista ride, anche se non sa per quale motivo. Col viso diventato rosso, il ragazzo fissa il vuoto davanti a sé nel corridoio. Un altro ragazzo dal sedile accanto gli chiede in modo gentile: «Ma come ti chiami? Sei nuovo, da dove vieni?»
Riprendendo un po’ di fiducia risponde: «Mmmmmmi cchchcchiamo Eugggegennnnio Cornnnaccchi, mi sonnnno trasffffferito la sssettimannna scccooorrssssa.»
«Non ho capito, Gegè Cornacchia ti chiami? O Eugenio Cornuto?» Tutti di nuovo a ridere fragorosamente, anche l’autista, che si stava chiedendo cosa ci fosse da ridere così tanto quella mattina.
Il rosso del  viso era diventato rosso scuro. Per togliersi dall’imbarazzo Eugenio cerca di trovare un posto a sedere. C’è una ragazza carina che sta leggendo, le chiede: «Pppposssso sedddeeerrmmi?»
«No, devo tenere i libri su questo sedile, trovati un altro posto, non voglio nessuno vicino.»
Così Eugenio prosegue. Una ragazza robusta siede accanto ad un posto libero. Si avvicina per sedersi al suo fianco, lei lo vede, e rabbiosa dice: «Fila via scemo, non voglio sfigati vicino a me.»
Eugenio prova a sedersi ugualmente, ma uno schiaffo potente lo colpisce sulla faccia: «Va’ via pezzo di merda, tu e quel cappotto ridicolo. Ti ho detto che mi fai schifo, non ti voglio seduto qui, vaffanculo via o ti spacco la faccia.»
Tutti ridono nuovamente, Eugenio si va a mettere in piedi vicino all’autista.
Da dietro uno gli urla: «Le cococornacchie vicino non le vuole nessuno!» Tutti a ridere, anche l’autista che stavolta ha sentito e può ridere a proposito.
Dal giorno dopo nessuno vede più Eugenio Cornacchi sull’autobus, gira voce che si sia ritirato da scuola.
Si comincia a rivederlo qualche anno dopo, mentre parla da solo e cammina per le strade senza meta, col suo cappotto a quadri marroni e gialli. Lo tiene anche quando fa caldo, se lo sfila e lo mette sulle spalle come un mantello. Ogni tanto qualcuno gli urla qualcosa mentre passa davanti al bar, ma poi col tempo smettono tutti di farlo. Anche perché Eugenio ora gira con uno sguardo strano, con occhi persi, fa impressione a molti. Poi improvvisamente sparisce. Si dice che suo padre abbia finalmente trovato un buon lavoro, dicono che abbia messo Eugenio in un istituto, per vedere se  riesce a guarirlo.
Anni dopo si vede girare per il paese un trentenne muscoloso in jeans e maglietta neri, con lo sguardo feroce. Entra in un bar, ordina una birra. Nessuno degli avventori del bar parla, intimoriti dall’aspetto minaccioso del nerboruto estraneo.
Nel silenzio, il tale si avvicina al biliardo, ci sono alcuni perdigiorno e piccoli delinquenti che stanno giocando. L’estraneo si avvicina a Michele, uno di questi.
«Ti ricordi di me?»
«No, chi sei?» risponde Michele.
«Io invece mi ricordo di te, sei quello che mi ha preso in giro da ragazzino, dicevi avevo il cappotto che sembrava rubato nei cassonetti della Caritas.»
Silenzio totale, tutti stupiti, Eugenio Cornacchi è tornato. Rinato in nuova forma, incredibilmente lucido, non balbetta e ha un fisico minacciosamente possente.
Nessuno osa parlare, Michele prende il coraggio da bulletto che ha sempre avuto.
«E che vuoi da me? Sai che me ne frega del tuo cappotto e di quello che è successo anni fa, lascia perdere che devo giocare a biliardo adesso.»
«Ti piace giocare a biliardo, ma le palle vanno usate nella maniera giusta.» Eugenio prende una palla, se la butta da una mano all’altra velocemente, e all’improvviso la lancia con tutta la sua forza sulla fronte di Michele, che cade a terra steso dalla botta.
Eugenio si china, prende la stecca di Michele e comincia a menarla sulla faccia degli altri, riuscendo a stenderli tutti prima che possano fuggire. Getta la stecca sul pavimento, tra i corpi stesi, le chiazze di sangue e i pezzi di denti rotti.
Esce dal bar e va verso il municipio. Entra tranquillamente e chiede del sindaco. Gli indicano il suo ufficio, il sindaco è Anna Patanghi, bussa alla sua porta e senza aspettare risposta entra.
Anna alza gli occhi dai documenti che sta leggendo: «Chi è lei? Come si permette di entrare senza chiedere il permesso. Esca immediatamente dal mio ufficio che ho da fare!»
«Ascoltami bene ex grassona, sono Eugenio Cornacchi, quello a cui hai dato uno schiaffo da ragazzino, mi hai causato dei traumi psicologici con cui ho dovuto lottare per anni. E la colpa è tua e di questa mandria di bifolchi imbecilli del paese.»
Anna ammutolita non fiata. Eugenio continua: «Ora, sacca di merda, ho le foto e le intercettazioni fatte da un investigatore privato da me incaricato, con le prove delle corna che fai a quel coglionazzo di tuo marito, della cocaina che ti sniffi, delle ruberie di soldi pubblici che fai grazie alla tua carica di sindaco. Adesso farai tutto quello che voglio io, oppure ti rovino.
«Scusa, non volevo farti star male, ne parliamo, dimmi come possiamo mettermi d’accordo, non rovinarmi.»
«Taci, che mi fai schifo. Hai un alito peggio della merda e si sente da qui. Taci e ascolta quanto ti dico. Se vuoi che io ti dia le prove delle tue mascalzonate da distruggere, devi solo fare una cosa: organizzare una festa con gli ex studenti, nel magazzino comunale sulla collina. Cibo e bevande gratis, metti dei manifesti per far conoscere la serata in modo che vengano tutti.»
«Va bene. Dimmi quando devo organizzarla.»
«Per il sabato della prossima settimana, leggi qui e copia quanto c’è scritto. Pubblica i manifesti, alla fine della festa ti restituirò le intercettazioni con le foto e i filmati che ti riguardano.» Depone un foglio sulla scrivania, chiude la porta, sparisce. Fino al giorno della festa Eugenio non si vede più in paese.
Il sabato della festa, il magazzino comunale in collina è pieno di trentenni, tutti allegri per la rimpatriata e soprattutto per il beveraggio gratis.
Ballano, e si divertono a raccontarsi aneddoti di scuola. D’un tratto si spegne la musica, si abbassano le luci, un proiettore punta sul palco e vi sale Eugenio.
«Sono Eugenio Cornacchi, ho fatto riabilitazione psicologica, riabilitazione fisica, ho perso la balbuzie e ogni timidezza. Ma la cosa più importante è che grazie alla ditta di mio padre, che ha indovinato un brevetto, sono diventato ricchissimo. Ora vi propongo un affare: chi si farà tatuare indelebilmente SONO UNA MERDA UMANA sulla faccia avrà un milione di euro. Pensateci entro la fine della serata. Il camper qui fuori è lì per i tatuaggi. Riceverete l’assegno, oppure, se preferite, l’ammontare in lingotti d’oro certificati, che sono nell’enorme furgone portavalori accanto al camper. Scusate l’interruzione, e buon divertimento.»
La musica riprende, le luci si accendono, ma nessuno si muove.

Da quella sera in poi, il paese divenne famoso in quanto si diffuse una strana religione autoctona, per cui giravano col volto coperto le donne e anche gli uomini.

 

di Alessandra Piccoli

Suona la sveglia, sposto le coperte, scendo dal letto, meccanicamente svolgo i riti mattutini prima di recarmi al lavoro. Ho strani pensieri in testa, sbattono tra le pareti del cranio.

E luce che ti lusinga un attimo prima della morte.
Non lo sai, l’hai sentito raccontare, o l’hai semplicemente visto con altri occhi, o col cuore ma mai accarezzata.
Calda, svenevole, e odora di buono, ti chiedi perché opporre resistenza, quando è evidente che qualcuno ha già deciso per te. Condividerai con l’anima tua, tutto questo, la gioia, perché per mano è diverso , meno doloroso ed angosciante da raccontare perché sono due voci unisonanti , due corde che vibrano in perfetta armonia. Già, perché opporre resistenza, perché rifiutare?
E non lo farai, abbasserai le difese, ti farai penetrare da quegli occhi .
La luce, quella vera, l’ho vista per la prima volta quando ti ho incontrata, ho capito che soltanto guardarti sarebbe stato un viaggio di sola andata. Il velluto che mi ha avvolto come mai nessun tessuto, balsamo che mi ha curato e nutrito, e ho pensato di essere stato inghiottito, anche solo per un attimo, e che mi sarei perso volentieri. Solo tu mi avresti potuto salvare, tirare fuori da quella spirale buia in cui dormivo rassegnato ormai ad una vita incolore ed insapore che non era di certo la mia.
Ora lo so.
Il lavoro mi teneva a galla, la piaggeria delle persone che gravitavano attorno a me, il costruire continuamente un idolo per poi abbatterlo, un fingere emozioni, cercare la benevolenza e l’amore degli altri. Poi, ad un tratto…incroci occhi come questi. La ghisa rovente, il colpo al capo, violento, non sai se è risveglio o coma per sempre, non sai chi sei, chi sei stato finora ma la certezza di volere Lei, quella è chiara, sai che è tua ,lo è sempre stata ed è ciò che ti manca. La tua meta e metà.
Lo sai ora che ti ha investito, perché prima aveva sembianze di fame e sete, e non riuscivi a cogliere il bello, non ci riuscivi mai, perché filtravi con lenti tristi le nuvole, la nebbia, la pioggia dirompente ed era tutto così fastidioso. Era un vivere la noia, un coprirsi di esperienze altrui, un vivere altre vite, un parassitare e fagocitare corpi per mantenere il ritmo di un battito stanco.
Vorrei che mi dicessi che mi ami. Che mi abbracciassi. Che facessi l’amore con me. Dimmi cosa vedi, mentre guardi il vuoto, che cosa immagini per noi. Nella testa il velluto dei tuoi occhi, mi soffoca le parole. Nero, pece, m’invischia. Ti amo.
Urto la tua spalla, l’odore di pane caldo e del caramello mi brucia le narici. Ci tocchiamo per un infinito istante e mi chiedo se esista veramente il caso, perché oggi ho preso l’autobus delle 7.40, in ritardo su tutto, io che ho sempre anticipato ogni cosa, pensiero, azione, che ho vissuto una vita in anticipo, fuori fase. E ora ho sentito il tuo odore, tu profumi di un futuro diverso.
La spalla mi duole, in testa l’eco di mille pensieri di carne, le porte che si chiudono, il 56 come un mostro , mi inghiotte.
Non so se ne uscirò vivo, cambiato, o cosa, o chi. Ho fissato il tuo viso per dieci eterni minuti, ho desiderato il traffico, i semafori, la pioggia, la nebbia, gli insulti dei frettolosi, qualunque cosa potesse fermare quell’istante e quel luogo in movimento. Devo parlarle, fermarla, toccarla ancora. Il controllore sale, non ho timbrato il biglietto, e tu ridi. Ridi mentre pago, nulla rispetto al debito eterno che mi aspetta. Improvvisamente tutto si ferma, non esiste più nulla, nemmeno i finestrini ,quadri in movimento sulle pareti di una casa che immagino già nostra, ma solo pupille dilatate, più nere di una notte senza luna, l’odore dell’asfalto umido, e le porte che si chiudono. Il mostro si allontana da me, da noi, vomitati fuori.
Vorrei fare qualcosa, dovrei, perché adesso o non sarà mai più, non ci sarai più. Ti amo. Come faccio a dirti che ti amo da sempre, che ti aspettavo, che vorrei rimanessi qui con me, adesso, per sempre? Mi sento morire, muoio.
Ora la luce è quel fulmine, il colpo caldo dentro, di un racconto solo immaginato, fa male, mi trafigge, mi inchioda paralizzandomi, e sono di sabbia.
Le labbra mute trattengono le parole congelate dentro di me, ti guardo e sospiro cercando di leggere ed interpretare i tuoi pensieri, bramando una bussola immerso nel nero del pozzo che sei, una risposta che mi orienti, un cenno impercettibile, dimmi che sei tu, che io sono io, e che sono ciò che ti manca. Tu non parli, sorridi, i tuoi occhi bellissimi non li avrò mai, lo so, ma non mi sono sbagliato e nemmeno tu, ma non si può, non si deve.E ti dovrò nascondere per sempre nelle mie preghiere.
Mi lasci la mano, l’avevo? Non so. Ho le dita intorpidite, umide di te. E fa freddo qui e nebbia e pioggia, tutto torna un fastidio, mentre cerco disperatamente il velluto e angosciato e solo scendo ancor di più in fondo, negli abissi della mia follia e solo schegge di vetri rotti che feriscono i miei polsi, le mie dita intorpidite e ancora umide di te.Il tempo forse si è fermato. Ma tu no. Mi volti le spalle e te ne vai senza nemmeno guardarmi. Forse non mi ha visto mai. Lasci il mio mondo se mai è stato un po’ tuo, si alza un vento e con esso le foglie, mi ero persino scordato dell’autunno, perché tu non hai stagioni amore mio, non hai corpo, non hai nemmeno più occhi di velluto, nè sangue che possa dissetarmi, e un sole cocente esce all’improvviso asciugando la mia sabbia. Mille granelli si disperdono nel vento d’ottobre. E non c’è più niente, bramo affinchè quel vento mi riporti, in pace, al mare. Amore mio infinito.
Arriva il 57 e tu sei ormai lontana, l’illusione di tenere ancora la tua mano, ti prego stai qui con me, qui dove non sarai mai, ti immagino come non sei, come non ti voglio più rivedere e ti accarezzo il viso imbrattandolo col mio sangue.I fari ai quali vado incontro, il suono assordante come il nulla che ne seguirà, il mio corpo dilaniato nello schianto, la gente che urla e un passo, io ad un passo da te. E la luce. 

 

di Adalgisa Marrocco

C’è una parte di me che non conoscerai. L’unica cosa che non mostrerò mai. In maniera disperata, alla fine ti amerò. In maniera disperata, alla fine ti concederò tutto. Non ti lascerò e non ti farò cadere, semmai si presenterà il momento.  Chiaro da capire, difficile da dire. Sogni accarezzati che dormiranno per sempre. In maniera disperata, alla fine ti amerò. In maniera disperata, alla fine ti concederò tutto. Non ti lascerò e non ti farò cadere, semmai si presenterà il momento. In maniera disperata, alla fine ti amerò. In maniera disperata, alla fine ti concederò tutto. Non ti lascerò e non ti farò cadere. Ma quel momento non arriverà mai.

Ho iniziato a tradurre canzoni solo per ricordarmi quanto quelle parole sembrino essere state scritte per te. Aggiungo. Elimino. Dipende. Non inserisco mai il tuo nome per non rendermi ridicolo. Plasmo la canzone in base alla consistenza della tua assenza. Certi giorni sei talmente vicina che potrei allungare la mano e sfiorarti, altri la tua crudeltà è così grande che vorrei cancellarti dalla faccia della terra.
Oggi sei vestita di celeste e somigli al cielo sopra il nostro palazzo. L’ottavo piano del mio paradiso. L’ottavo piano dei miei inferi. Quando sei arrivata, il mio cuore ha iniziato a battere. Prima di allora non avevo mai vissuto davvero. Amo l’amore che diffondi, amo anche il dolore che mi infliggi. Se un giorno dovessi andare via, perirei di nostalgia e delusione.
Non scappare. Rimani ancora qualche minuto, amore mio. Non avere fretta. Questi titoli di coda potrebbero ammazzarmi. Resta qui, mio amore. Ferma col tuo vestito celeste e coi tuoi capelli d’oro.  Le persiane della tua casa si abbassano insieme alla mia speranza. Non farlo anche oggi. Non ancora.
Piango ogni notte. Sempre la stessa storia. Quando sparisci, casa tua non è più illuminata dallo splendore che hai negli occhi.
Piango per questo.
Ogni notte.
Ogni giorno.
Lo giuro.
Stanno passando le stagioni e la mia sofferenza si carica di ciclicità. Oggi è il primo giorno d’estate e tu inizierai ad indossare gli abiti di stoffa leggera, color pastello, coi fiorellini bianchi. È quasi ora del tuo ritorno a casa, tra poco si schiuderanno le persiane e verrò accecato dalla bellezza.
Ancora non arrivi.
Oggi sei in ritardo.
Sono preoccupato.
Non posso resistere.
Devo capire se sei tornata e stai dormendo, oppure la tua assenza si prolungherà all’infinito.
Afferro la scala telescopica riposta nello sgabuzzino e la porto nel salone. Scanso la TV messa davanti la finestra, esco fuori e allungo la scala fino a toccare la ringhiera del tuo balcone. Salgo. Striscio. Sono a metà strada. Ancora poco e scardinerò le finestre di casa tua per vedere se ci sei. Ma non sto bene, d’improvviso. Mi distraggono le urla della gente appostata nel cortile condominiale. È sempre stato un quartiere di pettegoli. Non sto bene. Urlano. Non sto bene. NO!

Anche nella nuova fascia oraria delle 19 “Cuori nella tempesta” è riuscito a conquistare una media di oltre 2.6 milioni di spettatori quotidiani: numeri positivi, ma in calo se confrontati con quelli registrati grazie alle puntate trasmesse nel primo pomeriggio. Proprio per questo motivo, il direttore dell’emittente ha destinato una lunga pausa estiva alla soap opera argentina che, non andando in onda dal 21 giugno al 21 settembre, lascerà al pubblico la possibilità di godersi le vacanze senza l’ansia di perdere nemmeno una novità circa gli amori della bella Ester e dei suoi amici.

Sogni accarezzati che dormiranno per sempre.

 

di Gino Panariello

Quella giornata di merda era iniziata alle cinque del mattino coi carabinieri che bussavano alla mia porta e finiva con un agente di custodia che mi consegnava il “corredo”. Coperta, posate, un cuscino in spugna e carta igienica. Avevo ventisei anni e secondo le indagini appartenevo ad una “organizzazione criminale dedita al traffico e allo spaccio di cocaina operante a Milano”.
Buffo. Ero sempre stato un balordo e una volta salito a Milano deciso a lasciarmi alle spalle le serate nei bar del Medio Volturno, tra sbronze ed eroina, venivo arrestato su due piedi. Tra l’altro per una faccenda grossa (2,8kg di cocaina pura al novantacinque percento) che, anche volendo, non avrei mai avuto la capacità di mettere in piedi. Tuttavia facevo ancora affidamento sulla “competenza degli inquirenti “ trascurando però un piccolo particolare: anche loro sapevano giocare sporco.
Assolutamente certo della mia totale estraneità ai fatti, quei signori avevano deciso di far leva sulla paura di chi non c’entrava nulla ma poteva in qualche modo “essere a conoscenza” di determinate cose, pur non avendone preso parte attiva, spingendomi a “testimoniare” o “collaborare” paventando la possibilità di pene severissime in caso contrario. Così eccomi qua, con la mia “dote” tra le braccia e l’agente che mi faceva strada. Quando aprì la porta vidi quattro tizi seduti ad un tavolo che giocavano a carte.  «Buonasera» dissi. Sentii la porta richiudersi alle mie spalle e lo scatto della chiave.
Uno dei quattro tizi si alzò, mi prese tutto l’armamentario e lo posò sul tavolo, poi disse qualcosa in slavo agli altri che subito si alzarono ed iniziarono a preparare quella che doveva essere la mia branda. Andai in panico, non capivo perché lo facessero ma ringraziai, erano molto gentili ma non ce n’era bisogno, avrei fatto da me.
Quello che si era presentato per primo si fermò e mi guardò. «È  la prima volta che ti blindano, vero?» Mi spiegò che le cose funzionano così al gabbio, ai nuovi arrivati si prepara la branda. Quella notte non dormii granché, mi svegliò un agente urlando il mio nome attraverso la porta, ordinandomi di seguirlo. Quando chiesi di cosa si trattasse bofonchiò qualcosa a proposito di “magistrato” e “interrogatorio” senza neanche voltarsi. L’interrogatorio durò dieci minuti finché il magistrato - una donna che non alzava mai lo sguardo dal fascicolo - fece segno alla guardia di portarmi via, agitando la mano come quando si scaccia una mosca. Dopo due ore ero ancora in “sala d’attesa” e aspettavo di essere riportato nella mia cella. Iniziai a pensare che mi avessero dimenticato lì, avevo freddo, decisi di bussare alla porta blindata.
«Cosa cazzo hai da bussare? Cosa cazzo vuoi? Devi stare a cuccia pezzo di merda, da qui esci solo quando lo dico io, chiaro?»
L’agente appoggiò la sua faccia contro la mia continuando ad insultarmi. Guardai a terra senza fiatare aspettando da un momento all’altro una testata che non arrivava mai. La sensazione che provi un istante prima di sentire il dolore è insostenibile se dura un po’ più a lungo. Arrivi a desiderarlo quel dolore. Lo vuoi fino a sanguinare. Desideri smettere di tenderti fino allo spasimo mentre il respiro non ti concede l’aria.
L’agente aveva gli occhi rossi, delle chiazze di barba mal rasata e l’alito pesante. Poi mi spintonò contro il muro. «Sta a cuccia» disse. Da allora più nessuno ha avvicinato così tanto la sua faccia alla mia senza subirne qualche conseguenza. E poi ricordo tutto quel camminare compulsivo. Si scendeva in un cortile di venti metri per dieci e lo si percorreva avanti indietro infinite volte. Vista dal di fuori una cosa simile appare grottesca, buffa, ma una volta che ci sei dentro comprendi che quella è l’unica via di fuga che ti viene concessa e ne cogli comunque tutto l’assurdo, insano significato. Impari in fretta che in qualsiasi posto tu vada troverai sempre quello che pensa ad imporre il suo stato di potere. Per quanto esso sia limitato da quattro mura e meschinità di ogni genere, ci sarà sempre chi se ne farà affascinare e comincerà a lavorarci, alleandosi con chi teme e azzannando chi ritiene più debole, per l’aspetto o per i modi. 
Io malgrado tutto, sono sempre stato una persona affabile e quand’ero più giovane, anche un timido.
Evidentemente Gedjo (un detenuto serbo con cui condividevo la cella) scambiò la mia gentilezza e la mia disponibilità per debolezza o per paura. Fatto sta che dopo una settimana, all’arrivo di un suo connazionale si sentì finalmente in maggioranza e una sera iniziò a sbraitarmi contro perché ero davanti al cancello della “ stanza” (aspettavo il carrello del refettorio con la cena) e avrei dovuto togliermi dai coglioni «Italiano di merda, chi cazzo ti credi di essere?» Ci rimasi talmente male che lì per lì non reagii. Fu un grosso errore, me ne resi conto subito.
È così naturale se ci rifletti. I cani si annusano il culo per capire chi è il più forte, digrignano i denti, ringhiano. Anche gli uomini adottano la stessa metodologia.Una mattina dovevo presentarmi al colloquio coi parenti, chiamai ad alta voce l’agente. Gedjo cominciò ad insultarmi, allora capii. Capii che non potevo subire ancora.
Mi misi a distanza utile in modo da poterlo calciare in faccia se avesse provato a scendere dalla branda. Poi lo chiamai “pezzo di merda”. Decisi di tastare il terreno. Mi fissò confuso, disorientato. Non scese dalla branda.
«Ti ammazzo, un qualche giorno ti ammazzo.» rispose a denti stretti. Lo mandai a farsi fottere.
Quando tornai dal colloquio, mentre gli altri erano all’aria mi procurai un pezzo di vetro rompendolo da uno specchietto incollato al muro. Ci sono quelli che si succhiano il pollice, quelli che si carezzano il naso. Io per sentirmi al sicuro mettevo la mano nella tasca dei pantaloni e toccavo il mio triangolino di vetro. La faccenda ebbe il suo epilogo una sera in cui tutti e quattro i miei “coinquilini” giocavano a carte, si fece tardi ed io chiesi di spegnere la luce. Ovviamente il serbo rispose come immaginavo. A quel punto scesi dalla branda.
Avevo il triangolino di vetro nella tasca della tuta che usavo come pigiama, e la mano in quella tasca. E avevo anche paura, una gran paura. Loro erano quattro. Due serbi e due croati e non sapevo come avrebbero reagito, quale posizione avrebbero preso. Sarebbero rimasti neutrali?
Mi piazzai di fronte a lui.
«Io adesso vado a pisciare, quando esco di qui la luce deve essere spenta» dissi con calma.
«Vaffanculo italiano di merda! Io ti ammazzo!» urlò senza alzarsi dalla branda. Andai a pisciare, ero terrorizzato. Pregai che avessero spento la luce.
Uscii. Avevano fatto una sorta di separé attaccando una coperta a mo’ di tenda a soffitto in modo da filtrare la luce elettrica. Quello che mi aveva dato il benvenuto preparandomi la branda mi disse «Ok Gino, lasciaci almeno finire la partita, tanto la luce non dà fastidio ora. Prendi anche qualche sigaretta.» Guardai la mia mensola, c’erano una decina di Alfa senza filtro. Gli altri avevano capito ed avevano trovato un compromesso per tutti. Accettai senza discutere oltre. I piantoni di guardia quasi sicuramente dormivano e se fosse successo qualcosa mi avrebbero tirato fuori da quel buco troppo tardi.
Dopo due giorni riuscii a farmi trasferire in una cella di napoletani che avevo conosciuto al “passeggio”, durante l’ora d’aria. Raccontai a Salvatore com’erano andate le cose - un cinquantenne azzoppato in gioventù da una gambizzazione, con la schiena arata da vecchie cicatrici di coltellate. Lui annuì, senza dir nulla. Da quel giorno Gedjo non scese più al passeggio. Io fui scarcerato tre mesi dopo, assolto per non aver commesso il fatto.
Per due anni non sono riuscito a stare in stanze chiuse senza camminare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.


 

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