top of page

Spazzolino e dentifricio

di Nicola Cudemo

Questa mattina ho aperto la confezione di un nuovo spazzolino. Ho asciugato per bene il vecchio, e l’ho messo nel borsone degli usati. Non li butto, anche se sono molto consumati. Gli spazzolini servono. Spazzolini, dentifrici, collutori e scovolini interdentali. Ma soprattutto, spazzolini. Manuali, a motore, a ricarica solare, li possiedo tutti, e li uso sempre. Una carie, sarebbe terribile. Debilitante. Un dente che marcisca in bocca. Le uniche opzioni, una automutilazione dolorosissima e dagli esiti incerti, o un colpo in testa. Solo che il suicidio per mal di denti non è una opzione percorribile. Tanto più che potrei sempre fare razzia di antidolorifici. Aspettiamo qualcosa di più serio. Il tempo è stupendo, temperatura e luce dalle finestre spalancate dell’attico.
Le mie stanze allegre, alla luce del sole. Vorrei che ci fosse sempre. Il sole, dico. La notte è deprimente, anche se c’è il mio gregge a tenermi compagnia, ad aggirarsi lamentoso al pianoterra. Ho fatto colazione, cereali e semi, poi ho preso il nuovo spazzolino e mi sono lavato i denti. A lungo. Ho smesso quando hanno cominciato a sanguinarmi le gengive. Devo controllarmi, anche le gengive sono importanti. Esco sul terrazzo e ramazzo tutte le bottiglie di birra della notte prima. Le butto giù dal lato est del palazzo, il lato che da sulla rampa di accesso ai garage sotterranei. La spazzatura non è più una seccatura. Tolgo piatti sporchi dal tavolino. Riporto dentro la tastiera Kentron e l’amplificatore Fender.
Non che io sappia suonare, uso le sezioni ritmiche della tastiera, per dare tono alle mie bevute serali. Prima usavo la musica, ma non andava bene. Troppo coinvolgente. Mi seccava, mettermi sempre a piangere, alla quarta birra. Il loop sincopato dell’elettronica va meglio, mentre me ne sto stravaccato sulla poltrona, in terrazzo, a guardare la città  buia e a cercare di stordirmi a birra e a contrappunti di bassi. Devo rinnovare le scorte. Cibo e bevande. Faccio scendere il cestello del montacarichi a piano terra. Guardo giù e vedo il mio gregge che comincia a radunarsi lento intorno ad esso.
Sanno che quando arriva, dopo un po’ arrivo pure io. Sono sempre più veloci. Migliorano ogni giorno che passa. Mi infilo il Mossberg sulle spalle e mi allaccio la fondina con la 45 alla coscia. Faccio scendere la passerella che collega il mio terrazzo con quello accanto, sul lato nord. Attraversarla non è un problema, facevo arrampicata libera, le vertigini non sono contemplate. E comunque, me ne frega poco. La passerella l’ho costruita io, in profilato d’alluminio e corda. Ho anche fatto saltare le scale con delle micro cariche trapanate nel cemento armato e liberato gli appartamenti sottostanti dai cadaveri degli inquilini preesistenti. I pochi nella fase terminale li ho spazzati via con il Mossberg.
Così, adesso, sono l’unico abitante del mio castello, comprensivo di ponte levatoio del cazzo. Raggiungo la superficie e carico due bidoni di gasolio nel cesto del monta carichi. Il gruppo elettrogeno super-silenziato che ho installato nell’appartamento sotto l’attico è quasi a secco. Il gregge si è avvicinato, nel frattempo. Puzzano come capre stagionate e girano gli occhi alla maniera degli autisti, senza mai guardarti, ma sono contento di vederli arrivare con il loro passo strascicato.
Si riuniscono tutti attorno a me ed io li esamino per vedere se sono in buone condizioni. Pare che nessuno si sia mutilato accidentalmente, nel corso della notte. Hanno solo la solita collezione di graffi freschi e sanguinanti. Ormai non succede quasi più che si facciano male seriamente. Stanno migliorando. Un po’ di tempo fa, gli ho tolto di dosso i pochi stracci sbrindellati che pendevano dai corpi emaciati.
Poi, aiutato da dosi massicce di sonnifero, gli ho messo addosso giacchetti e pantaloni di cuoio presi da un negozio di abbigliamento di sicurezza. I pantaloni li ho tagliati avanti e dietro, perché altrimenti evacuerebbero dentro, e ho riattaccato i lembi solo sulla parte superiore, così adesso sembrano un gruppetto di scalcinati indiani Iowa. Sono in quattordici, otto femmine e sei maschi. Mentre li sto ancora esaminando, mi sento toccare sul braccio destro. Mi giro e vedo che una delle femmine, la più alta, mi ha messo una mano sul braccio. Le do un ceffone violento a mano aperta sul viso. Mentre indietreggia e cade le urlo dietro «Fottuta zombie del cazzo, non devi toccarmi !Hai capito ? Non devi toccarmi!» Le do un paio di calci e mi incammino infuriato per il viale.
Non sopporto che mi tocchino. Li sento che camminano dietro di me. Ormai riescono quasi a stare al mio passo. Li porto al supermercato, dove carico su un carrello scatolame, confezioni di birra e cereali. Poi vado alla mangiatoia, che è il banco dei formaggi che ho svuotato, e mescolo insieme cous cous precotto e scatole di cibo per cani e gatti. Mentre il gregge mangia, giro per gli scaffali, e mi scelgo qualche spazzolino e un paio di bottiglie di rum. Questo supermercato è quasi andato. Ormai sono rimasti pochi spazzolini. Fra un po’ me ne sceglierò un altro. Torno di là e vedo che il gregge ha quasi finito. Mentre spazzolano via gli ultimi resti di cibo, apro una delle bottiglie di rum e tiro due lunghi sorsi. Di solito, non bevo mai la mattina. Di solito. Solo che adesso mi serve il rum per attutire i ricordi. La mano della femmina sul mio braccio li ha risvegliati. Ricordi di prima, ricordi dei giorni del virus, con le orde dementi che sciamavano per la città, ricordi di me alla postazione di tiro sul terrazzo, che facevo surriscaldare la canna del TikkaT3 Tactical in una frenesia di uccisioni.
Alla fine, la radio aveva taciuto, niente più ordini, niente più di niente. Bevo un altro paio di sorsi. Il gregge si è di nuovo radunato intorno a me. Offuscato dal rum, gli dico «Mi dispiace. Mi dispiace. Non sapevamo che la fase maniacale sarebbe passata presto, che saremmo rimasti pochi immuni a guardarvi morire a milioni.»
Mi avvio barcollando, prima che a qualcuno di loro venga di nuovo in mente di toccarmi. Spingo il carrello sulla strada del ritorno. Carico tutto sul cesto del montacarichi e prendo la bici dalla rimessa. Ho bevuto troppo a stomaco vuoto, mi verrà un mal di testa feroce, ma devo fare il giro della frutta e verdura. Sono necessarie, prevengono la carie e i problemi di intestino. In giro per la città ci sono orti botanici, alberi da frutta ornamentali che ora hanno un altro valore. Poi c’è il parco, dove posso prendere la verdura spontanea.
Quando mi avvio con la bici, il gregge resta fermo a guardarmi. Ormai capiscono quando possono venire insieme e quando no. Pedalare mi fa bene. Mi dedico al semplice piacere fisico sotto il sole mite. Durante il raccolto, passo nei pressi della zona abitativa di un altro immune. Non vedo segni di attività di alcun genere. Non so neanche se sia ancora vivo. Alla fine del mio giro, passo dal piazzale della stazione, dove, in mezzo al parcheggio vuoto degli autobus, trovo una sorpresa.
Una stazione di rilevamento dati. Almeno, penso sia quella, la sua funzione. È una specie di scatolone metallico con un anemometro, prese d’aria varie, antenne, scomparti trasparenti con recipienti di coltura. Sono maledettamente sicuro che l’ultima volta che sono passato di lì lo scatolone non c’era. Mi mette addosso una strana euforia. Sa di organizzazione, sa di tentativi e di ripresa. Penso di lasciare un biglietto, poi penso che è meglio non interferire. Me ne torno a casa fischiettando. Passo il pomeriggio a sistemare un po’ di cose che rimandavo da tanto tempo. Quando il sole sta per tramontare, do da mangiare al gregge, e salgo. La sera, mi organizzo una festicciola a base di rum e di tiri di precisione con il Tikka. Alla fine del viale ho posizionato dei palloncini con dietro delle candele accese. Sono delle specie di ceri protetti, a lunga durata. Mi esibisco in una serie di tiri sempre più spericolati, man mano che diminuisce il rum nella bottiglia. Alla fine tiro senza appoggio, e ridacchio ad ogni bersaglio mancato. Poi, mi addormento sulla poltrona. La mattina dopo, mi lavo i denti più sbrigativamente del solito. Sono ansioso di scendere, e di andare a vedere la stazione di rilevamento.
Penso che questa volta lo lascerò, il biglietto. Discreto, lontano, con un segnale per attirare l’attenzione. Sto ancora pensando al biglietto, quando sbuco sul piazzale dove mi sta aspettando il gregge. Mi fermo di botto. Stanno intorno a due figure in tenuta bianca stagna da laboratorio di contenimento, con vistose maschere antigas. I miei cercano di circondarli, e loro indietreggiano nervosi. Imbracciano degli AR 15, ed io corro verso di loro e li chiamo, perché’ non voglio che facciano del male al gregge. Loro si girano di scatto, e uno dei due inciampa e lascia partire una raffica. L’altro perde il controllo e mi tira addosso. Sento l’impatto di un proiettile in una gamba, mentre vedo due maschi e una femmina del gregge che cadono sotto i colpi. I miei automatismi prendono il sopravvento e mi tuffo in scivolata estraendo il Mossberg e tirando due colpi che scaraventano indietro i due in tenuta bianca. Mentre cerco di radunare il gregge per portarlo via, arrivano altri tizi in tenuta stagna. Sono troppo lontani per il Mossberg, così estraggo la 45. Loro abbattono altri quattro dei miei, io tiro e abbatto due di loro, gridando come un ossesso, vuoto il caricatore e lo lascio cadere. Mentre cerco di inserire il nuovo, tre colpi mi raggiungono al torace e cado in ginocchio. Mi guardo intorno, sono in mezzo ai corpi del gregge. Lascio cadere la pistola, sento le lacrime che escono, poi non sento più niente.

 

 

Please reload

bottom of page