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Klimt era un figlio di puttana

di Andre Lasdo

Le tre età della donna, quel dipinto di Klimt che simboleggia le tre fasi della donna: infanzia, maternità, vecchiaia. Mi viene in mente ‘sta cosa mentre sto guidando senza una meta, senza un appuntamento, senza il formicolio sottopelle delle ore contate. Succede così. Il cervello si apre come un mazzo di carte e ne pesca una a caso. Allora pesca la carta della musica all’autoradio e quella porzione di materia grigia ascolta una certa sinfonia, smanetta sulle stazioni, canticchia qualcosa. Ne pesca un’altra e sulla carta ci sono delle mani che reggono un volante, che mettono la freccia, scalano le marce, e allora quest’altra fetta di pensiero viaggia in routine, fa sì che la meccanica del corpo compia azioni e gesti abituali. La terza carta è quella di Gustav Klimt, appunto.
Poi la macchina si ferma, la chiave stacca il collegamento, il piede s’alza dal pedale della frizione. Mi guardo in giro. Piazzale di cemento, zona mai vista prima, bar di periferia, entro. Dritto davanti a me il bancone. Legno chiaro con lastra di marmo unto. Parcheggio i gomiti sopra e aspetto. Alla mia destra un tavolino.
Due giovani seduti, poco meno o poco più di vent’anni, si baciano tre volte ogni due secondi. Alla mia sinistra altro tavolo. Quattro anziani che giocano a carte. Giocano a briscola. Asso, 3, re, cavallo, donna, 7, 6, 5, 4, 2. Arriva una tizia, mi chiede cosa voglio, dico un caffè e quella si dà da fare. Eccomi qua, le tre età di Gustav in chiave osteria di passaggio. Giovinetti, uomo maturo, anziani. Stacco un orecchio alla bustina dello zucchero e comincio a girare il cucchiaino.
 E mentre il cucchiaino gira, gira pure il ramaiolo del Tempo sul calderone coi nostri resti. Mi metto a curiosare ora da una parte ora dall’altra. Un po’ come se guardassi una partita di tennis, solo che la palla è fatta con la pelle della morte e la rete divisoria sono io. O almeno è così che mi sento. I giovinetti sono belli.
Tutto è bello alla mia destra. Bella è la loro faccina fresca, belle le loro bocche rosse che giocano a indiani e cowboy. Belli sono i capelli. Folti e puliti. Belli i vestiti, coi colori sgargianti di Klimt che nell’insieme sono caldi e luminosi come l’oro che usava nelle foglie. Belli i loro occhi agganciati uno sull’altro, come pesci blu che si muovono insieme. Bella la loro voce bisbigliata che si accuccia rasoterra perché è scaltra, dice cose che noi vorremmo sentire ma ha una lingua sola e quella lingua adesso si apre in due e sbatte sui denti appuntiti, s’intreccia a serpente, finisce quasi in gola.
Di là, alla mia sinistra, il gioco non regge. Ci sono quattro spugne luride, imbevute così tanto di vita eppure così rinsecchite da sfasciarsi in brandelli di stoppa. Si leccano le dita con sputo di lumaca e battono il fante. Dita che sono lame rugginite di roncola e hanno occhi duri come i sassi del fiume, che l’acqua passando ha slavato il colore. E le voci? Tu la chiami voce il verso del vento sul tronco annerito dal marcio? È  forse voce la rangola ansante della bestia vecchia?
Insomma io li guardo e non c’è un cazzo da ridere.
E nel mezzo ci sono io. L’età di mezzo. Il soggetto al centro della tela. Fra il desiderio alla mia destra e la mattanza che chiamano senilità, alla mia sinistra.
Finisco il caffè, pago il conto, raccolgo gli spicci.
Un’ultima occhiata da un lato e realizzo di essere troppo vecchio per sedermi a quel tavolo, e troppo giovane per dare le carte nell’altro. Da una parte parlano di cose che ho già visto, parole che ho già pronunciato, bugie dolci, sguardi che ho toccato mille volte e sono sempre state poche. Il passato è seduto là, così vicino eppure così lontano. E il futuro alle mie spalle che si gioca le ultime mani e vincere o perdere non conta più nulla. Il futuro è una tormentata cagnara di rauchi, una stancante conta dei punti persi. Al futuro io non servo, ha già il suo pasto caldo sulle ginocchia. Nasci uomo e perdi i pezzi. Resterò con la sola U che pare tanto una fossa scavata, o il fondo d’una bara dove ristagnano i liquidi e le puzze cadaveriche. Questa tela non posso squarciarla con un coltello. Qui gli smalti sono fatti col sangue imbrattato sulla carne. Me ne vado e scappo via.
Klimt era un figlio di puttana.
L’auto viaggia e dal cervello pesco un’altra carta.
Esce una canzone alla radio: beneath the stains of time (che vuol dire più o meno “sotto i calci in culo del tempo”) the feelings dissapear (i sentimenti scompaiono, sbiadiscono) you are someone else (tu sei qualcun altro)
I am still right here (Sono ancora qui)
Sì. Anche Johnny Cash era un figlio di puttana.

 

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